Che differenza c’è tra un inondazione di un un km di strada a ridosso del mare, accaduta giorni fa in un luogo qualsiasi, che fa riemergere sulla spiaggia rifiuti sepolti 50 anni fa, e una fila di cassoni di ferro, distese di sacchi di pezzi e robaccia di plastica, colle e polipropilene sparso al suolo, pezzi di ogni sorta di elaborato artificiale dappertutto, immagine di ogni giorno in una qualsiasi fabbrica e in generale nella totalità degli spazi del suolo civilizzato?
Nel primo caso, lo scandalo di una giornata. Fa colpo l’immagine atroce del disastro, della moria di specie viventi e dell’inquinamento di un pezzo di mare. Più semplicemente, l’immagine rovinata di un angolo relegato a “spazio natura” nella mente dello spettatore. Il cittadino pretende di arrivare sul luogo con la sua auto nel “giorno libero” e poter ammirare l’immagine pulita quanto artefatta del mare, della montagna, del lago.
Viviamo in un mondo sempre più artificiale nel quale ogni rapporto e relazione tra le cose e tra le persone è mediato da simboli, strumenti tecnici e complessi congegni di rappresentazione della realtà. Il risultato di questa mediazione è l’astrazione dalla realtà stessa. Come spiega bene J.Zerzan, (J.Zerzan – Senza via di scampo? Riflessioni sulla fine del mondo), viviamo più per mezzo di questi simboli di rappresentazione che attraverso i nostri corpi e le relazioni dirette con ciò che ci circonda. Eppure, come sempre accade, anche sulla scrivania di un eminente impresario capitalista, alla vetrata dell’ultimo piano del palazzo, nell’angolo accanto al pc e a faldoni di porcherie, c’è una foto di famiglia che ritrae volti così sorridenti sullo sfondo di un paesaggio naturale. Perché non tra i suoi corridoi cementificati di scaffalature traboccanti di affari?
Chiaramente questa separazione mentale tra quanto è considerato natura e quanto artificiale, così come necessario (considerazione diretta da stroncare alla luce dei fatti), tende a riprodursi, nel mondo civilizzato, nella costruzione e nell’organizzazione degli spazi. Le nuove frontiere del capitalismo verde e dell’applicazione tecnologica nel sistema produttivo quanto nell’urbanizzazione sono uno specchio di questa astrazione mentale. La natura (termine qui utilizzato per indicare tutto ciò che non si “avvale” di sistemi di mediazione) è concepita in senso utilitaristico che sia per la produttività o per il semplice intrattenimento e fine ricreativo. L’ideologia che sta alla base ha a che fare con la separazione dell’uomo dalla natura a partire dalla presunta superiorità sulle altre forme di vita; pensiero che si è imposto sulle culture antiche imponendo gerarchia, lavoro astratto e accumulazione, inesistenti in forme di organizzazione sociale egualitaria ed ecologica. Il contributo della scienza è stato ed è fondamentale nell’aumentare questa discrepanza in quanto la visione scientifica concepisce e analizza i fenomeni da un punto di vista distaccato e con l’intento di rendere manipolabile e riproducibile il principio di ogni cosa.
L’uomo in un certo senso ha sempre “combattuto” con la natura, utilizzando i suoi mezzi e progressivamente gli strumenti tecnici per modificarne le forme ed adattarla ai bisogni sociali di volta in volta emergenti. Difficile spiegare quale sia il punto in cui la tecnica si impone a sistema e avanza da sola perdendo la neutralità a cui ci si rifà nel momento in cui la si considera, come un martello, possibile di un utilizzo positivo o negativo a seconda dell’intento. Probabilmente dal momento in cui questa si sviluppa sulla base di un rapporto di sfruttamento e di vantaggio personale, cioè dal momento in cui è nato il profitto. Se nelle società non fosse prevalso l’interesse personale, l’accumulazione permessa dallo sfruttamento di individui in funzione di un vantaggio da parte di altri, sarebbe stato possibile dare vita a impianti idroelettrici, raffinerie petrolifere, miniere di coltan (per gli obbligatori smartphone), centrali nucleari e tutto quanto è necessario per sostenere l’intero apparato tecnologico che ci circonda?
Qualche distopico idealista della totale automazione, direbbe che sarebbero le macchine ad assicurarci il benessere e l’affrancamento dal lavoro. Liberi di dedicarci all’arte ed oziare in… paradisi di plexiglass e ripetitori wireless?
Anche fosse possibile, saremmo disposti a dimenticare la terra verso un ambiente artificiale di comunicazioni mediate e rapporti alienati? Zero rapporti diretti, zero sensazioni, emozioni trasferibili e dispositivi tecnologici per qualsiasi funzione vitale?
Al diavolo i vostri mezzi di produzione. Al diavolo i vostri paradisi distopici.
[27.01.2020]