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Un altra vita

Nel mezzo del mondo tecnico, dove escludersi è diventato impossibile, non sono rimaste che poche alternative. Se sentiamo di non voler sacrificare la nostra vita all’arrendevolezza del presente come all’impulso distruttivo dell’azione, forse è altrettanto valido ascoltare quello che diceva in un suo manifesto uno scrittore alpigiano, Jean Giono, lettera ai contadini sulla povertà e la pace, 1938.

 

 

 

Rifiutare la litania della macchina, praticare la via della lentezza, sperimentare nuove e vecchie modalità.

Resistere

Resistere per non perire, Resistere per Esistere.
Affondare le radici nella propria terra, amarla.
Amare il gorgoglìo di un ruscello di montagna, il canto della cincia, il profumo del miele selvatico.
Opporsi all’ondata travolgente del falso progresso.
Arrestare l’ossessiva ricerca del profitto.
Frenare la rovinosa corsa verso il baratro.
Uscire dalla spirale malata e necrofila del potere
che domina, dispone, manipola, controlla, taglia, brucia, sfrutta, piega, schiaccia, distrugge.
Scegliere la vita, non la morte.
Parteggiare.
Scegliere la gallina di domani, non l’uovo di oggi:
che viva in un mondo sano, non sanificato.
Un mondo genuino e giusto.
Che sia libera. Di nutrirsi, dormire, accoppiarsi.
E crescere figli sani e giusti in un prato verde di un pianeta verde,
non “Green”.
Resistere per combattere i nemici della diversità e del pluralismo
che vogliono dividerci ed eliminare questa moltitudine.
Per tornare ad essere Uno.

 

 

Autopsia rivoluzionaria

“Viva l’Italia! Che fu libera, dal cattivo seme del totalitarismo, verso un divenire radioso all’insegna della libertà e dell’uguaglianza!”
25 Aprile, la giornata che per unx è una bandiera verde bianco rossa che sventola sui palazzi dei collegi democratici, per atrx una pregna commemorazione. Nel primo caso una burla, nel secondo un feticcio. La liberazione per questx ultimx rappresenterebbe la fine della lotta contro il nazifascismo, intrisa delle mille vicende umane che l’hanno attraversata. Se i primi la rileggono da un punto di vista patriottico riducendo la lotta popolare al sollevarsi di un’identità nazionale-democratica che ha portato a riaffermarsi nei “valori” della costituzione, riassumendo le tantissime direzioni delle diverse lotte partigiane, da quelle cattoliche a quelle leniniste, ignorando e letteralmente confinando quelle che, anarchiche, non si rifecero a nessun coordinamento e nemmeno mai si fermarono (lungi dal riconoscere alcuna liberazione sotto le insigne del tricolore levato dalla borghesia), per i secondi la liberazione è continuamente un processo mai concluso e sempre vivo nei cuori e nelle coscienze. Pronto allora a vedersi risorgere, in futuro, contro l’incombere dell’oppressione. Ma dato che la lotta è -anche da questo punto- viva, nei cantieri dell’alta val di susa e dietro alle barricate di ogni confine, e l’oppressione presente, quando arriverà il momento di levare le teste? Speriamo molto presto, magari prima di farsi sottoporre ad analisi sanguigne estemporanee e convalidati di microchip per autocertificazioni digitali, e via dicendo. Praticamente prima di sottoporsi all’ultimo dei tasselli del cyborg. Ma come Pandora la speranza è l’ultima ad uscire dal vaso, non prima quindi della dignità, e neanche dell’umanità, e chissà mai che ce ne faremo quando anche la realtà di fuori sarà completamente disumanizzata.
No, non coviamo speranza per un divenire collettivo rimandato a insorgenze future, come fa chi con la fede spera nell’aldilà rimandando a domani quello che non può avere oggi. Buttiamo via i feticci.
Non separiamo la cosiddetta militanza – relegata a baldanzosi ritrovi se non a sagre della bandiera rossa- dalla sfera privata, nel rimando a scenari immaginari nei quali proiettare le nostre illusioni. Cioè non suddividiamo l’esistenza integra. Lasciamo piuttosto ad ogni sorta di speranza il proprio posto nel cuore senza farne una strategia d’azione e diamoci piuttosto obbiettivi concreti invece di alimentare aspettative illusorie per crogiolarsi nel desiderio dell’assalto al palazzo. Prendiamo atto che la rivoluzione tentata non tornerà se non con forme assolutamente imprevedibili: piuttosto lasciamo che sia il caos delle passioni individuali a dettarne le forme. Come del resto fu prima del 25 aprile: furono le necessità a generare il caos e non la coscienza politica.
Per un’anarchia vissuta.

 

<< Compiere la propria rivoluzione individuale, vuol dire sbarazzarsi il più e meglio possibile delle influenze che pesano sul proprio io e rivelarsi così a sé stessx; vuol dire, una volta liberatisi dal giogo delle influenze ereditarie, dell’educazione e delle tradizioni sociali, o in ogni caso dopo avervi lottato contro, essersi fatta, forgiata una concezione personale della vita; vuol dire ancora possedere la piena coscienza delle proprie passioni, dei propri slanci – non rinunciarvi, ben inteso – e, forte di questa conoscenza, della padronanza di sé in essa implicita, essere dispostx, preparatx per tutte le avventure, per tutte le esperienze alle quali trascinano ed incitano le circostanze dell’esistenza quotidiana. Vuol dire, infine, usare della propria forza di volontà, del proprio determinismo particolare e spiccato, per reagire sopra e contro l’usurpazione, la sopraffazione del non-io sull’io, dell’esteriore sulla propria sfera intima. E’ in questo che consiste la “rivoluzione individuale” e non in altra cosa>>

 

E.Armand, “Vivere l’Anarchia”

 

25 Aprile 2020

La giornata del 25 Aprile, l’idea di Libertà e di Liberazione sono sempre stati un cardine e un punto di riferimento dell’attività di partecipazione attiva. Questo coinvolgimento si è tramutato in impegno che 2 anni fa è in parte confluito in progetto più ampio, la Rete 25 Aprile Sempre Garda e Valsabbia che seppur in divenire ha portato l’anno scorso ad organizzare 4 eventi sulla sponda del bresciana e trentina del lago di Garda, da Arco a Desenzano. Noi, come gruppo di amici e amiche dell’alta Valle sabbia e Valle del Chiese, abbiamo partecipato a quello di Toscolano e nel discorso che abbiamo preparato abbiamo voluto ricordare e parlare di chi, secondo noi, oggi porta avanti i valori di solidarietà, umanità e desiderio di libertà, gli stessi che hanno contraddistinto la Resistenza.

Abbiamo parlato di chi oggi con azioni dirette si oppone alla devastazione e al saccheggio dei nostri territori, contro le grandi opere o contro chi sta rubando il nostro futuro come la presenza delle forze armate che stanno inquinando la vita economica con l’industria della morte e ora anche le università, con la formazione dei loro quadri dirigenti. Abbiamo parlato di chi mette in pericolo la propria libertà aiutando delle persone ad attraversare quelle linee immaginarie chiamate confini, chi aiuta i migranti e attraversare la milky way e di chi ha messo e mette in pericolo la propria vita andando a sostenere le lotte di libertà di altri popoli.

E quel discorso terminava con un ricordo ai partigiani di oggi, con l’estratto della toccante lettera testamento di Lorenzo Orsetti, partigiano anarchico e internazionalista fiorentino ucciso dall’Isis in Siria.

E in perfetta continuità con quel discorso oggi il primo pensiero va a loro, ai compagni e alle compagne che in prima persona hanno sostenuto la causa curda. In un mondo per certi versi estremamente ingiusto nei confronti dell’ambiente, delle donne e delle minoranze qualsiasi esse siano, portare avanti la causa ambientalista, antisessista e con una visione per certi versi libertaria è davvero rivoluzionario. Ed oggi queste persone sono state oggetto dell’ennesimo provvedimento repressivo, la sorveglianza speciale. Provvedimento che, come la diffida, l’isolamento carcerario e il daspo urbano, viene direttamente dal codice Rocco approvato nel 1930, in pieno ventennio fascista e inserito perfettamente nell’assetto democratico delle istituzioni.

Il primo pensiero va a loro perché pensare che il processo di liberazione sia finito il 25 Aprile 1945 è davvero fuorviante e loro sono un esempio lampante di questa cosa.

In tempi di reclusione domestica stiamo provando cosa possa significare la privazione delle libertà più o meno garantite dalla costituzione ma senza volere soffermarsi su questo aspetto, questa situazione di reclusione ci fa capire come le dinamiche che regolano le nostre vite non siano più nazionali ma internazionali e come la solidarietà debba essere elemento fondante del nostro vivere comune e debba farci riscoprire un’identità più che mai ultra nazionale.

Sono due i sostantivi che voglio considerare come parole chiave di questa riflessione.

Solidarietà e internazionalità.

L’essere internazionali oggi significa ribaltare anche le dinamiche di lotta su quella dimensione. E l’esempio ci arriva anche dalla Resistenza. Il motto dei primi resistenti ai fascismi, ossia dei volontari internazionalisti in Spagna era “Oggi in Spagna, domani in Italia” a significare che la lotta per la liberazione già allora aveva assunto un respiro ampio che travalicava i confini nazionali e regionali.

E consapevoli che probabilmente questo ampio respiro internazionale fosse proprio solo di una parte piccola del grande ventaglio dei protagonisti della Resistenza italiana e chiaramente anche di quelli dei nostri paesi rende chiaro quanto oggi sia importante abbattere le barriere nazionali.

Oggi le dinamiche di lotta sono internazionali, dall’Egitto alla Turchia, dal Cile del popolo dei Mapuche alle rivendicazioni dei nativi e dei neri nordamericani, la solidarietà è il vero motore che ci deve aggregare e che da forza a quelle idee. Esempio sono le grandi opere che travalicano i confini nazionali e la loro nefasta ricaduta è presente in tutti i paesi che attraversano.

La solidarietà non ha confini e non ha colore nemmeno tricolori. Gli stessi come abbiamo visto spuntare come funghi negli ultimi tempi. Perché purtroppo anche il tricolore è simbolo divisivo, sotto l’idea dell’unità nazionale, della difesa dei confini e sono state compiute e vengono compiute le peggiori violenze e sopraffazioni (i lager in Libia del precedente governo e del ministro del’interno Minniti sono un esempio lampante) e conosciamo i risultati della solidarietà “parziale”, rivolta solo ad una parte precisa di popolazione.

La solidarietà del ventennio ce l’ha insegnato, prima era rivolta solo agli italiani, poi solo a quelli “amici” del regime, poi a quelli si omologavano e pian piano quella finta solidarietà si è trasformata in ciò che è: un cancro che divide le genti.

Forse oggi parlare di patria o di tricolore è ridurre di valore questa festa, perché oggi sappiamo che la liberazione c’è se è collettiva, non può più considerarsi continentale, nazionale, regionale, bresciana o trentina, c’è se è internazionale. O siamo liberi tutti o nessuno davvero lo è. E l’enfasi posta sul tricolore e sulla patria dalla retorica dei vari nazionalisti e sovranisti, siano essi di destra che di sinistra, oltre al fine riscrivere la storia è collegata anche con la visione parziale della solidarietà, che nel loro caso è funzionale al mantenimento dello status quo al comando. Perché non è come nazione che usciremo dai problemi o otterremo la libertà ma è come umanità.

E l’attacco che è in corso alla solidarietà è continuo e costante, l’abbiamo visto anche durante questi giorni di pandemia in cui le istituzioni hanno spesso favorito e incentivato la delazione rispetto a comportamenti il cui giudizio di pericolosità è stato privo di fondamento e chiaramente alimentato dal sospetto. Tipico atteggiamento volto a dividere le genti non a creare consapevolezza o corresponsabilità e nemmeno ad unirle.

Ma parallelamente, in questi giorni, abbiamo assistito ad un fiorire di solidarietà dal basso, attiva e diretta, verso chi, indipendentemente dal colore della pelle, religione, censo o dal luogo fisico in cui si trova, ha auto bisogno di aiuto. Perché, in fondo, il mondo è oggi come allora diviso tra oppressi e oppressori. Tra chi chiede pane e riceve piombo.

Solidarietà e internazionalità sono due elementi essenziali non ascrivibile a un sentimento nazionale ma di rivalsa dell’intera umanità e sono una strada per raggiungere l’utopia massima: la Libertà.

Strada che ha trovato un momento di svolta e di gioia il 25 Aprile di 75 anni fa e che la ritrova oggi, con la consapevolezza che quel sentiero lo dobbiamo percorrere e attraversare assieme e che quel sentiero sarà lungo e tortuoso, che va dalle montagne brulle del Curdistan, prosegue nelle praterie cilene, nei terreni agricoli devastati dal Tav, nei luoghi di lavoro, che entra nelle celle delle carceri ma che parte sempre dallo stesso luogo: dal nostro cuore.

Perché è dal quel luogo misterioso che nasce la nostra Libertà.

Dal libro 1984:

“Avrebbero potuto analizzare e mettere su carta, nei minimi particolari, tutto quello che s’era fatto, s’era detto e s’era pensato; ma l’intimità del cuore, il cui lavoro è in gran parte un mistero anche per chi lo possiede, restava imprendibile”.

 

Partigiani

La storia della resistenza è fatta di piccole storie di resistenza, uomini e donne che ebbero diversi motivi per trovarsi in una scelta di ribellione. Uomini e donne che andarono in montagna perché era l’unica via per fuggire da un dominio che avanzava imponendo sottomissione e miseria. Contadini e montanari non avevano chissà quale idea politica o fede ideologica, ma si trovarono di fronte alla possibilità a senso unico di tacere e collaborare con il regime. Molti giovani si diedero alla macchia perché chiamati all’arruolamento e trovarono sui monti la ragione di lottare per la libertà. Alcuni scelsero di salire e “unirsi ai partigiani”, altri lo fecero a modo proprio. Altri già coscientemente anarchici. Certamente ci furono esempi di donne combattenti e molte altre che fecero da intermediarie, fornendo il supporto fondamentale. Le ragioni furono diverse. Prima di tutto il ruolo fisico della montagna come territorio ostile e non domo alla dominazione. Le ragioni per cui la lotta ebbe questa attrazione si trovano anche nel ruolo simbolico della montagna, percepita come madre, simbolo di un ritorno alla natura e alla terra, richiamo della forza animale e selvaggia. Punto d’incontro di diversi significati pagani, atavicamente legati alle radici culturali della gente alpina nel valore della terra. Per molte donne questo richiamo poteva rappresentare qualcosa di innato: l’attività clandestina era supporto molto femminile da non confondere con debole o inferiore: donne che portarono in salvo feriti caricandoseli in spalla, trasportarono messaggi e munizioni o viveri, occultarono segreti oltre la tortura e la morte. Al contrario per la cultura alpina pre-cristiana la donna è la madre, la terra, origine e rifugio al tempo stesso, forza e saggezza. La montagna ben prima dei partigiani fu da sempre – e ancora è – rifugio di streghe, ribelli e refrattari.
Oggi che un sistema totalitario apparentemente in camice bianco piuttosto che in divisa – solo uno scambio di facciata – pretende collaborazione tecnologica dai governati, facendo intravedere non troppo futuri scenari di controlli sanitari a tampone o tracciamento costante tramite applicazioni smartphone e acquiescenza totale, chissà che andare in montagna tornerà ad essere la necessità?