Autopsia rivoluzionaria

“Viva l’Italia! Che fu libera, dal cattivo seme del totalitarismo, verso un divenire radioso all’insegna della libertà e dell’uguaglianza!”
25 Aprile, la giornata che per unx è una bandiera verde bianco rossa che sventola sui palazzi dei collegi democratici, per atrx una pregna commemorazione. Nel primo caso una burla, nel secondo un feticcio. La liberazione per questx ultimx rappresenterebbe la fine della lotta contro il nazifascismo, intrisa delle mille vicende umane che l’hanno attraversata. Se i primi la rileggono da un punto di vista patriottico riducendo la lotta popolare al sollevarsi di un’identità nazionale-democratica che ha portato a riaffermarsi nei “valori” della costituzione, riassumendo le tantissime direzioni delle diverse lotte partigiane, da quelle cattoliche a quelle leniniste, ignorando e letteralmente confinando quelle che, anarchiche, non si rifecero a nessun coordinamento e nemmeno mai si fermarono (lungi dal riconoscere alcuna liberazione sotto le insigne del tricolore levato dalla borghesia), per i secondi la liberazione è continuamente un processo mai concluso e sempre vivo nei cuori e nelle coscienze. Pronto allora a vedersi risorgere, in futuro, contro l’incombere dell’oppressione. Ma dato che la lotta è -anche da questo punto- viva, nei cantieri dell’alta val di susa e dietro alle barricate di ogni confine, e l’oppressione presente, quando arriverà il momento di levare le teste? Speriamo molto presto, magari prima di farsi sottoporre ad analisi sanguigne estemporanee e convalidati di microchip per autocertificazioni digitali, e via dicendo. Praticamente prima di sottoporsi all’ultimo dei tasselli del cyborg. Ma come Pandora la speranza è l’ultima ad uscire dal vaso, non prima quindi della dignità, e neanche dell’umanità, e chissà mai che ce ne faremo quando anche la realtà di fuori sarà completamente disumanizzata.
No, non coviamo speranza per un divenire collettivo rimandato a insorgenze future, come fa chi con la fede spera nell’aldilà rimandando a domani quello che non può avere oggi. Buttiamo via i feticci.
Non separiamo la cosiddetta militanza – relegata a baldanzosi ritrovi se non a sagre della bandiera rossa- dalla sfera privata, nel rimando a scenari immaginari nei quali proiettare le nostre illusioni. Cioè non suddividiamo l’esistenza integra. Lasciamo piuttosto ad ogni sorta di speranza il proprio posto nel cuore senza farne una strategia d’azione e diamoci piuttosto obbiettivi concreti invece di alimentare aspettative illusorie per crogiolarsi nel desiderio dell’assalto al palazzo. Prendiamo atto che la rivoluzione tentata non tornerà se non con forme assolutamente imprevedibili: piuttosto lasciamo che sia il caos delle passioni individuali a dettarne le forme. Come del resto fu prima del 25 aprile: furono le necessità a generare il caos e non la coscienza politica.
Per un’anarchia vissuta.

 

<< Compiere la propria rivoluzione individuale, vuol dire sbarazzarsi il più e meglio possibile delle influenze che pesano sul proprio io e rivelarsi così a sé stessx; vuol dire, una volta liberatisi dal giogo delle influenze ereditarie, dell’educazione e delle tradizioni sociali, o in ogni caso dopo avervi lottato contro, essersi fatta, forgiata una concezione personale della vita; vuol dire ancora possedere la piena coscienza delle proprie passioni, dei propri slanci – non rinunciarvi, ben inteso – e, forte di questa conoscenza, della padronanza di sé in essa implicita, essere dispostx, preparatx per tutte le avventure, per tutte le esperienze alle quali trascinano ed incitano le circostanze dell’esistenza quotidiana. Vuol dire, infine, usare della propria forza di volontà, del proprio determinismo particolare e spiccato, per reagire sopra e contro l’usurpazione, la sopraffazione del non-io sull’io, dell’esteriore sulla propria sfera intima. E’ in questo che consiste la “rivoluzione individuale” e non in altra cosa>>

 

E.Armand, “Vivere l’Anarchia”